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autoritratto / regolamentare / attestato n.1
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# 29.03

Attestato n.1


Lo scritto contenuto in questo capitolo è l'attestato che consegno ai proprietari delle mie opere. Affronta il mio rapporto con la materia, la materia di cui è fatta l’opera, la mia relazione con l’opera, la mia idea di cos’è un’opera. Tocca punti tra i quali che cosa è il senso dell’opera per chi la fa, cosa l’artista si aspetta da chi la guarda, da chi la vive, da chi la possederà. Si domanda se è più importante mantenere il processo vivo e aperto adesso oppure cristallizzare e raggelare l’atto nel tempo. E’ necessario sottolineare la temporalità e la caducità o invece la stabilità e la durevolezza? Indica qualche cosa sull’accogliere l’opera, prendersene cura, conservarla, e affrontare o non affrontare la questione del restauro.

(Scritto nel 2014. Modificato nel 2017, 2023)

“IL PROPRIETARIO COME TESTIMONE” (QUELLO CHE VORREI DIRE A CHI DIVENTERÀ IL DETENTORE DI UNA MIA OPERA)

PAROLE SÌ PAROLE NO

Queste le parole che mi appartengono: vulnerabilità, precarietà, transitorietà, equilibrio delicato, instabilità, sensibilità, fragilità, emotività, provvisorietà, apertura, non finito, a misura d’uomo. E queste quelle lontane da me: centralità, forza, grandezza, imposizione, definito, finitezza, immobilità, certezza, chiusura, fine, assoluto.

IL MIO LAVORO = DEPOSITARE COLORE SULLA TELA

Che cos’è quello che faccio? Un atto fisico? Un atto poetico? Un paradosso? Il mio lavoro non c’entra con il colore in quanto percezione visiva, ma in quanto sostanza fisica.  Non dipingo un’immagine statica, ma produco materia viva. Dipingere per me ha a che fare con qualche cosa di fisiologico. È più vicino a una funzione vitale quale il respirare, il mangiare, l’espellere. La massa che si produce durante l’esistenza si fa e si accumula davanti a me, fuori di me. Ciò che faccio è creare le condizioni perché le cose succedano e questo accade fuori dal mio controllo. Possedere non significa avere un totale dominio, ma lasciare che la cosa vada avanti di per sé, per quello che è. Non lavoro pensando a ciò che sarà, agisco su una cosa viva che mi sta davanti. L’opera è nel presente e non nel futuro. L’opera non è l’oggetto centrale, frontale, ma è la traccia di un percorso. È come se fossi spettatrice di un evento che accade sotto i miei occhi e chi successivamente sarà il detentore di uno di miei lavori è come se diventasse il nuovo testimone di questa trasformazione. Il senso non è la “cosa” stessa, ma è il processo vitale che ha portato a questa cosa. Bisogna tenere in vita la possibilità di procedere, di far sì che le cose succedano, di vivere. Il nuovo testimone si porta via un pezzetto di materia, il frammento di un organismo più ampio e complesso. 

VADO CONTRO LA TECNICA

La tecnica è la capacità dell’uomo di avere costruito delle regole in grado di manipolare la materia fino ad arrivare a domarla. La tecnica della pittura a olio dice: quando si dipinge a olio per sovrapposizione di strati di colore, bisogna fare in modo che ogni strato successivo sia più flessibile di quello immediatamente precedente. Il principio è “grasso su magro” cioè “flessibile su meno flessibile”. Quando si dipinge a strati successivi, occorre aumentare a ogni mano la percentuale di medium utilizzato. Bisogna cioè procedere con coerenza e con ordine progressivo.Nel mio lavoro ciò che spinge a procedere non è la tecnica. Mi trovo in balia della materia. È come se avessi esasperato, portato ad estreme conseguenze la tecnica pittorica, fino ad arrivare ad un eccesso, andando contro le sue leggi. Quello che porta avanti il lavoro, la trasformazione del lavoro non è il controllo, ma un sentire, un procedere, un andare avanti a tentoni che pian piano spinge a compiere scelte e a trasformare a mano a mano il lavoro.Da quando ho cominciato a percepire il dipingere come una forma di “sedimentazione” la tavolozza si è ridotta al minimo. Il luogo dove si forma il colore è diventato uno solo: la ciotola. Non uso mai un colore puro, parto sempre da ciò che trovo dentro la tazza. Ciò che trovo è quello che è rimasto dal giorno prima dopo che ho dipinto su una tela. Aggiungo ogni giorno un nuovo colore trasformandolo lentamente nel tempo. La materia dentro la ciotola si trasforma, si consuma e non si accumula. Si rinnova sempre. La ciotola non si svuota mai, rimane sempre viva e bagnata. È come tenere in vita una pianta. Il colore che nasce lì dentro viene steso poi sulla tela e lì sopra a poco a poco si accumula. La ciotola è una. Le tele sono tante.Secondo le “buone maniere” dovrei trattare ogni colore con un principio diverso. Ogni colore ha una sua caratteristica specifica: si secca in un certo modo, è grasso in un certo modo, è coprente in un certo modo, ecc.Ma come decidere quale strato di colore debba venire prima e quale dopo? Su quale tela intervenire prima e su quale dopo? Nel mio caso tutto viene messo sullo stesso piano e tutto insieme concorre a costituire una materia unica. L’ordine con cui viene steso un colore sopra a un altro è determinato dal ritmo quotidiano, da ciò che avviene nella tazza e sulle tele su cui sto lavorando. Secondo le “buone maniere” non potrei stratificare così tanto. Dovrei abbandonare molto tempo prima quella tela e proseguire su un’altra, ma la quantità di strati è definita dalla matericità, dalla consistenza, dal senso di compiutezza che provo di fronte a questa materia che si è formata davanti a me. Non sono un’artigiana, non c’è logica legata alla tecnica, ma allo scorrere naturale delle cose determinato dal fluire dell’esistenza.

LA PELLE DELLA PITTURA

Il quadro è come un organismo vivente. La pittura è come una membrana, come una pelle. È sottile, sottile e composta da tanti strati molto fini e fragili. Può seccarsi, scorticarsi, squamarsi, manifestare rigonfiamenti, bolle che poi scoppiano e si possono staccare. Come la pelle è destinata a invecchiare. Non si può sapere con che velocità, quanto e quando invecchia. Le cose hanno un loro decorso naturale. Come la nostra condizione umana è in balia di fattori fuori dal nostro controllo. È soggetta al clima, all’aria, ai movimenti, alle condizioni esterne. Potrebbe diventare altro. Potrebbe cambiare. Possiamo decidere di cercare di mantenerla giovane il più a lungo possibile, possiamo nutrirla, possiamo fargli dei lifting, dei restauri, ma comunque sia il tempo gli passa sopra. Questo tempo che passa mi piace considerarlo come un continuo farsi dell’opera, cioè un proseguimento naturale di cambiamento della materia. L’opera in quanto materia lasciata come traccia dell’esperienza, dell’esistenza, è destinata a decomporsi, a trasformarsi. Nello studio il lavoro si trova nel suo habitat naturale. Qui cresce, si sviluppa, rimane sempre vivo. Quando esce è come se si cristallizzasse, ma non muore mai. Si tratta di tenerlo vivo con le intenzioni. Da me a qualcun altro, è come se passassi la palla a qualcheduno. 

CIÒ CHE SEMBRA E CIÒ CHE È

Non si può progettare una forma. Le cose prendono la forma che devono prendere, diventano ciò che vogliono. A volte assumono un’immagine che non necessariamente corrisponde alla loro essenza. L’immagine che le rappresenta non sempre coincide con quello che hanno alle spalle. Nel mio caso il lavoro ha preso una forma piuttosto ambigua. È una contraddizione in termini. Quindi è difficile capire la sua natura intrinseca se non sono io che ne parlo, se non sono io che lo completo con le mie parole. Dal di fuori parla di monocromo, pulizia, precisione, compiutezza, ma io so che ciò che sento è policromia, sporcizia, indefinitezza, transizione. Chissà forse arriverò ad un punto in cui le due cose combaceranno? Mi rendo conto che è fuorviante, ma non si può forzare nulla. Non posso far altro che seguire e andar dietro allo scorrere naturale delle cose, senza costringere. L’evento succede, non si provoca. Non si può simulare o rappresentare l’idea dello scorrere del tempo, si può solo starci dentro, lo si può solo assecondare.

Venezia, 2014

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Questo testo, che accompagna ogni singola opera, viene allegato alla scheda d’autentica
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L’immagine sfondo del testo è il colore grigiastro della melma che si è formata negli anni sul fondo del mio sgocciolapennelli. È legata all’idea della concretezza materica dell’opera, tema principale dell’allegato.
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