2021
Dal “Socrate” di Rossellini:
- Far silenzio in sé stessi per ascoltarsi dentro
- La ricerca naturale della verità
- Creare le condizioni per la comprensione
- Credere a una voce interiore
Arte = Luogo fisico e mentale dove esistere, stare e stare bene.
Situazione ideale:
1- Fare ogni giorno un colore, dipingere, immaginare opere
2- Pensare, scrivere, ragionare su quello che faccio. Essere presente a me stessa.
3- Avere un confronto, un interlocutore, degli interlocutori
4- Ogni tanto esplicitare verso l’esterno, ma poco, solo quando c’è qualcosa che vale veramente la pena di essere detta
5- Riuscire a guadagnare del proprio lavoro
L’arte è il lavoro di un essere umano che cerca di connettersi con un altro essere umano.
Si fa arte non solo facendo l’arte, ma anche attraverso la conversazione che si intrattiene con sé stessi mentre si sta facendo arte.
Entrare in un mondo ed uscirne in un altro.
Entrare in uno spazio e uscirne trasformata.
Entrare là dentro pensando di essere in questo nostro spazio e invece trovarsi catapultata in un’altra dimensione.
Nominare ogni singolo colore. Un po’ come fosse una litania visiva. Lasciare spazio ad ogni colore di esistere.
Coltivare. Prendersi cura. Custodire la possibilità che il gesto possa essere continuato.
Come se tutta questa materia-colore che esce da me fosse una materia organica, un tutt’uno con la sostanza del mondo, parte integrante della natura umana assieme a quella della natura del mondo, di tutti gli altri organismi.
Ostensione: è proprio questo il momento di portare il nucleo in mezzo ad una comunità di persone. È proprio questo il momento per stare insieme, in cui farmi prendere per mano e lasciare che il nocciolo venga accompagnato da qualcun altro.
Atti di fiducia: la prima persona che mi ha comperato un lavoro è stata la mia maestra Carmen, la seconda lo zio Sandro.
Il “Sitomente” è anche un modo per pensare, abbozzare e fissare le cose. Non è un modo di dar conto di qualcosa come potrebbe avvenire con un disegno, un progetto o un testo descrittivo. Tiene aperto e visualizza il pensiero. In fondo non è necessario realizzare tutto, basta che esista lì dentro.
Nel “Sitomente” è come se avessi formato un vocabolario con le mie frasi e le mie parole così come nel “Luogogesto” dentro alla ciotola ho formato nel tempo una mia tavolozza di colori. A queste parole, a queste frasi attingo di volta in volta per comporre un nuovo testo, aggiungendo così come nella ciotola un pezzetto di qualcosa di nuovo.
Ricorsività del linguaggio (Chomsky)
Ri-uso
Inserire una cosa dentro ad un’altra
Embedding
Incorporare
Riplasmare
Ripescare
Ritornare
Rifare
Rileggere
Uno sguardo rigenerativo: quello di un artista su un altro artista
“Sitomente”: un libro molle, fluido, liquido, in evoluzione, sempre in cambiamento, mai fermo e mai finito.
“Sitomente” come coadiuvante del “Luogogesto”
“Luogogesto” e “Sitomente”: un dittico.
Ascoltando Piero mentre mi ripete le lezioni di storia della filosofia… parlando degli Stoici e di Aristotele tiro fuori e forzo: 1- Irriducibile
Non si da mai uno senza l’altro. L’interazione è irriducibile. I due oggetti non si danno mai separatamente; 2- Conflagrazione. Produzione ciclica eterna. Il movimento che garantisce la continuità del cosmo.
Ecco il “Rimpicciolimento” montato: uno spazio kafkiano dove avviene la metamorfosi…
Sempre ascoltando Piero…
Plotino non correggeva mai quello che scriveva. Scrittura come flusso di coscienza, di getto, come se avesse già il piano in testa…
Non ce la faccio a parlare in pubblico di cose su cui non ho ancora pensato.
Il “Sitomente” come accumulatore e allo stesso tempo generatore di opere.
“Sitomente e “Luogogesto” = due luoghi, due cose una per lo spirito e l’altra per il corpo.
“Che l’universo fosse immaginato come una cosa, in senso non solo spaziale ma anche temporale.”
“Ogni cosa è quindi simbolicamente l’universo (…) la cosa e il mondo sono due somme equivalenti.”
“… tutte queste costruzioni hanno come loro funzione (…) quella di fornire loro un campo di esperienza in cui essi possano <divenire ciò che sono>
(Ananda Coomaraswamy)
Facendo la miniaturizzazione dello spazio del mio studio mi sono accorta che l’angolo dove ho posto il tavolo con la ciotola e un angolo acuto. Contiene, tiene dentro e allo stesso tempo è come se fosse una feccia proiettata verso il fuori. Verso Nord Est?
Il “Luogogesto” e il “Sitomente”, il suo alterego.
Il “Sitomente” = immaginare, ipotizzare la presenza dell’altro.
Dall’esperienza diretta all’esperimento virtuale. Stare lì in mezzo.
Sempre ascoltando Piero su Aristotele…
Il senso è già tutto nell’atto. L’atto perfetto è quello che corrisponde alla sua attualizzazione.
Tutto il corpo del lavoro come fosse una meta-opera che riflette su sé stessa.
Riflettere sull’opera, sì, ma poi affiancarla ad altri. Il senso non è dentro di me, ma dentro lo sguardo dell’altro.
Essere negli altri. Vedersi nell’immaginazione degli altri. Non essere sempre sola. Sentirsi compresi.
Non parto mai da una ricerca, da uno studio dell’argomento che sto per affrontare. Non guardo ciò che è stato fatto prima di me, fuori di me, ma guardo prima di tutto dentro di me. Cerco di ascoltare una realtà interiore per tirarla fuori, così, come un dato oggettivo.
Parto quindi sì da una realtà oggettiva interiore, ma cerco sempre di trovare dei nessi, dei paralleli, delle assonanze, similitudini, tra l’una e l’altra, tra la realtà interna e quella esterna (per esterna intendo esterna a me, ma potrebbe essere l’interno di un’altra soggettività).
Quello che faccio attraverso il sito non è tanto un’opera che ragiona su come si fa un’opera, quanto un’opera che piuttosto pone la realtà così com’è, senza mediazioni, senza interpretazioni.
“Autoritratto” è in un certo senso un’interpretazione senza l’interpretazione, se per interpretazione si intende la forzatura dentro ad un significato univoco. Per me è chi poi guarda, è chi aggiunge lo sguardo o sovrappone il suo sguardo al mio che interpreta. Le visioni sono molteplici e non fissate.
Non un lavoro autobiografico, ma una generalizzazione di sé stessi. Quando dico che sono partita dalle misure del corpo per definire il formato dei quadri o quando dico che ho pensato al tempo della vita per definire la capienza della Diarioteca non ho fatto riferimento alla misura specifica del mio corpo, ma ho pensato ad una media statistica. Anzi potrei aggiungere che ancor di più ciò che mi ha condotto nel definire le giuste misure, sia un adattamento lento a scelte naturali, scivolandoci dentro con un po’ di coscienza e un po’ di casualità. È un po’ come fosse stato andare avanti a prescindere da me stessa.
Preferisco lavorare da ignorante e ingenua, seguendo le intuizioni che mi vengono dal di dentro, assecondando me stessa piuttosto che farmi influenzare dall’esterno (tanto l’esterno di rimbalzo, comunque, entra sempre dentro di me). Poi sì, certo, cerco nelle parole e nelle immagini degli altri quello che ho fatto anche io. Cerco similitudine, uguaglianza, empatia… e quando la trovo sono felice perché non mi sento sola, perché percepisco che quello che ho detto è condivisibile con gli altri.
Ciò che viene dal di fuori è quello che viene dall’elaborazione degli incontri, dai rapporti umani.
Il punto fondamentale non è trovare uno spettatore, ma un interlocutore. Un rapporto. Non si tratta di esibire, ma di mettersi in relazione.
Come far capire ai critici che il mio scrivere in “Autoritratto” non è “LA” lettura di quello che faccio, ma un corpo accanto all’opera? Il corpo-materia accanto al corpo-pensiero. Come far capire che possono prendere in mano queste due entità dialoganti e contradditorie e leggerle come vogliono loro?
“Luogogesto” = luogo dove la pittura si compie.
Un adattamento continuo alla modifica del senso.
Non è l’essenza che cambia, perché lei continua ad essere sempre quella che è. È il corpo che cambia, non l’atto in sé.
Vorrei fermarmi ed andare avanti per inerzia.
Ecco l’atteggiamento di fronte al dipingere. Arrivare vuota, senza pensieri, davanti alla ciotola e così davanti alla tela. Vuota. Niente, niente idee, niente, temi, nessuna ragione, nessuna progettualità. Come un’ebete. Aperta al flusso.
Si tratta di afferrare il senso non nel momento del dipingere, non nell’atto stesso del dipingere, ma dopo, nel lavoro che faccio nel “Sitomente”.
Ecco piano piano ci sono arrivata. Ho la netta sensazione che tutti quei piccoli frammenti, tutte quelle piccole parti adesso si siano compattate dentro ad un unico sistema, un organismo che le tiene insieme.
Essere parte di una materia più ampia, che mi contiene tutta. Una materia che mi precede, che c’è sempre stata e sempre ci sarà.
Esporre senza giudizio, senza stringere verso la comprensione di qualcosa in maniera unilaterale e poi es-porre ancora. Senza nessuna forma conclusiva. Tutto rimane aperto.
Immanenza. Permanenza. In potenza. Pre-forma. Pre-pittura. Pre-linguaggio.
Stare esattamente nel punto in tutto può ancora succedere, in cui tutto è ancora possibile. Prima che ancora qualcosa. Non è necessario de-finire.
Ammiro chi riesce a dare forma alle cose, io non ci riesco, non posso far altro che la cosa esista così com’è senza spengerla.
Dire, senza arrivare a definire qualcosa di preciso.
La consuetudine è la condizione che mi permette di andare avanti.
Il “Sostituto” mi aiuta a dire metaforicamente che il gesto può potenzialmente essere ripetuto sempre ovunque e comunque e che l’opera è in continua trasformazione.
È potenzialmente sempre in divenire e potenzialmente sempre eseguibile ovunque anche se nella realtà non viene fatto.
Non mi interessa l’aspetto performativo, non mi interessa farlo di fronte agli altri, mi interessa piuttosto mostrare la proiezione dello spazio vuoto dello studio. L’immagine dello studio, evocandolo, e soprattutto differenziandolo dalla sua matrice, dal “Luogogesto”, il vero studio. Il “Luogogesto” rimane sul piedistallo, il “Sostituto” no. Questo secondo spazio derivato dal primo toglie anche in un certo senso la centralità e assolutezza del gesto che di solito viene fatto in solitudine e intimità. Lasciare vuoto lo spazio dalla presenza dell’artista significa dare la possibilità allo spettatore di immaginarsi lì dentro.
L’aspetto rituale.
Una forma rituale senza vederla eseguire, ma solo immaginandola. Fare un rito e poi evocarlo senza mostrarlo, facendolo immaginare. Facendo percepire che è lì dentro a quello spazio da sempre e per sempre. Senza enfatizzare, ma dando importanza al fatto che questo gesto possa potenzialmente essere ripreso e ripetuto da tutti.
Rito = schema entro il quale potenzialmente far rivivere l’atto espressivo.
Tutte le opere hanno un ritmo biologico che vanni di pari passo con quello della vita.
Apparire – Dis-apparire
Riempire – Svuotare
Predisporre le cose all’imprevedibilità.
La ripetizione è un movimento.
Portare a galla ciò che sta dentro.
Dire delle cose in autonomia.
Appartata.
Creare la condizione per cui i timidi, i solitari, gli introversi possano esprimersi.
Il mio sito: ho costruito un posto dove stare, attraverso il quale parlare, un modo che mi appartiene.
Chissà se qualcuno lo capterà, lo intercetterà?
Riconoscersi. in quello che altre persone dicono. Accettare che altri parlino a mio nome. Affiancarsi. Sostenere. Accompagnare. Essere presente. Appoggiare. Anche questa è una forma di militanza.
Disimparare.
Mi sono resa conto che a poco a poco ho perso la manualità, la capacità di usare le mani, ma questo mi ha portata a concentrami sempre più su unico gesto fino a riuscirlo a fare con una certa naturalità, leggerezza.
Regressione.
Una riduzione. Una distilizzazione.
Progressivamente, negli anni, sono arrivata a ridurre, a sintetizzare, a comprimere, in poche cose, in poco spazio, in poche parole, in poco tempo dedicato quotidianamente la mia azione.
Da un lato ho disimparato e abbandonato tutta una serie di attività e dall’altra sono andata ad affinare a concentrare per non distrarmi.
Dovevo arrivare ad un punto, ed ora che sento di esserci di arrivata? Non sia mai, scavo ancora, magari tutto ancora si ribalterà…
Come la punta aguzza di una matita che invece di muoversi su tutta l’area del foglio insiste avanti e indietro su un unico tratto. A poco a poco scava un solco profondo.
È strano, ma quello che sento di percepire non è una concentrazione, ma una distrazione che si ripete in un gesto meccanico.
Questa condizione di familiarità, di situazione confortevole, del sentirmi a mio agio, mi permette di spaziare con la mente, apre e dilata il discorso, sposta l’azione in mille direzioni facendomi sentire completamente libera. Mi sembra di sollevarmi da terra.
Spinta dalla fiducia nella potenza umana e dal desiderio di esprimersi e di sentirsi un tutt’uno con le cose del mondo. Essere con gli altri in mezzo a tutte le altre cose. Andare all’unisono seguendo un ritmo biologico.
La mia azione quotidiana del dipingere = una cosa “normale”.
Normale nella definizione della Treccani = una cosa normale, consueta, ordinaria, regolare, non eccezionale, che segue la norma, conforme alla norma…
Un gesto fatto con distrazione, anziché con concentrazione.
Dedicarsi.
Dedicare il proprio tempo a qualcosa o qualcuno in cui crediamo.
In sintesi n.1: la mia è come se fosse una sorta di scrittura diaristica che tenta di diventare una forma epistolare. Se tutto ciò è stato concepito, portato avanti nell’isolamento, smania però di trovare una forma di comunicazione, come se quello che faccio diventasse lo strumento per mettermi in contatto con gli altri (attraverso il sito). Da uno ad uno.
In sintesi n.2: creare le condizioni per cui il colore (ovvero la materia interiore in connessione con tutta la materia del mondo) succeda in maniera fluida e naturale; tenerne una traccia attraverso il gesto pittorico; prendersi cura della potenzialità del gesto, dell’idea e della sua concretizzazione in maniera tangibile, mantenendone la storia nell’archivio-sito; usare tutto ciò come strumento per comunicare, per mettersi in relazione con gli altri, immaginandosi pur sempre nella propria specificità e individualità, così come lo sono gli altri e tutte le cose.
Come se le mie opere fossero delle documentazioni di azioni, conseguenze di un processo, tenuto in vita nella solitudine del mio studio.
La fiducia nell’atto pittorico.
Una riduzione totale dell’atto pittorico. Essere arrivati all’osso? O addirittura ad un istante prima?
Mi rendo conto che le opere che mi hanno sempre attirato sono state quelle in cui era evidente il processo. Come se fossi sempre stata interessata a vedere nella forma finale i movimenti che hanno portato fino a quel punto. Un’immagine ultima che mi aiuta andando a ritroso e capire i singoli passi, le affermazioni, i ripensamenti… Qualcosa che svela il movimento di un certo percorso.
Questo mi interessa vederlo dentro un’opera singola (vedi per esempio i quadri uno sopra l’altro che Tomma Abts dipinge all’interno di un’unica opera), ma anche dentro l’intero percorso di un artista che sposta il pensiero pittorico da un’opera ad un’altra (vedi per esempio i due San Matteo di Caravaggio).
Mi interessa sentire poi che quel punto finale che sto guardando non è definitivo, ma transitorio, immaginando apra a nuove possibili aperture.
Stare nello spazio virtuale. In un luogo dove ancora la cosa non esiste, ma che potenzialmente potrebbe accadere.
E poi succede un colore.
Douglas Crimp: “Pittura: metafisica del tocco umano”
Il “Luogogesto” riprende in qualche modo le proporzioni del casotto in campagna a San Leonardo dove giocavo da bambina? Non le misure, ma le proporzioni. Il corpo stando fisso al centro dello spazio e oscillando (staccando prima un piede e poi l’altro dal pavimento) riesce a toccare con le mani da un lato una parete e poi l’altra dalla parte opposta. Nel lato più lungo invece dello spazio sono necessari 2 o 3 passi per toccare una parete e arrivare al punto opposto.
Lasciar scorrere
Non interrompere
Con lentezza
Adagio
Un movimento rotondo
Le opere come strumento per prendere coscienza delle cose, per essere presente a me stessa e allo stesso tempo per astrarmi dimenticandomi di me.
Dalla sedimentazione allo scavo. Da sedimentatrice-accumulatrice ad archeologa-scavatrice. Da un lato un costante deposito di materia e dall’altra un lavoro indagatore di analisi.
Ridurre
Ridurre per proseguire e poi anche per tramandare.
Arrivata all’essenziale
Ho costruito una struttura entro la quale l’essenzialità possa continuare ad esistere.
Mi domando: perché non mi piace mai usare delle parole per descrivere quello che vedo? Perché non sono in grado di descrivere la realtà? Perché per esempio non mi piace parlare di fronte ad un quadro insieme ad un’altra persona?
Mi accorgo che lo sguardo scivola sulle cose senza una logica precisa e razionale. Questo modo di guardare distratto, trasversale entra poi dopo piano piano e forma. Ci vuole del tempo per lasciarlo depositare.
Il quadro del San Lorenzo di Tiziano qui accanto al mio studio sono andata a guardarlo tante e tante di quelle volte e adesso anche se non lo vado più a trovare da tempo continua a macinare dentro. É come se lo andassi a visitare tutti i giorni anche se tutti i giorni non ci vado più.
Perché non riesco ad entrare in un pensiero logico? Perché sempre più non riesco a seguire un filo logico del discorso?
Sospesa
Galleggiante
Non incisiva
Captare, ma non comprendere in un senso logico. Solo impressioni.
Nessuna direzione. Nessuna finalità.
Archiviare l’archivio
Costruire una mostra come un’opera
Oscillare tra una visione al microscopio e una al telescopio.
Oggi, la ciotola ha virato.
Come un agricoltore che raccoglie i frutti.
Con l’augurio più sincero che ognuno di noi diventi il fautore della propria realtà.
Che il mondo possa essere popolato di tanti piccoli mondi forti o deboli che rispettino il nucleo centrale di ognuno del suo demiurgo. E poi tutti questi mondi connessi gli uni agli altri.
Lasciare emergere le contraddizioni perché il processo è organico e non predefinito.
Una forma individuale che parte dal di dentro e che reagisce al contatto con l’esterno.
Una forma collettiva che si modifica nella sostanza in relazione alle unità interne che la compongono.
Il quadro infinito è nato nel tentativo di immettere una qualche forma di figurazione all’interno del quadro. Tentativo immancabilmente fallito e puntualmente negato.
Scrivendo per l’Ostensione:
Ci si rende conto che oltre ad un recto e un verso ha anche uno spessore. Offrire al pubblico la vista dell’attività installativa e dunque della dimensione più oggettuale della pittura significa porre l’accento sul carattere primariamente fisico della pittura che innanzitutto è una pratica manuale e concreta. L’opera come roba viene così gettata nel mondo e percepita come cosa tra le cose, non siamo più noi ad entrare dentro l’illusione della superficie dell’opera, ma è l’opera ad entrare nel mondo, facendoci avere l’impressione di stare, noi, con l’arte in mezzo all’arte.
Io sto lì nel punto in cui ancora non ci sono, poi per farle esistere devo sempre avvallarmi dell’aiuto di qualcun altro. Io non so nulla e non so fare nulla.
