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# 16.10

Prozia (marieda di stefano)


RICEVERE E PASSARE

Zia Mini, la mamma e me

I ricordi su zia Mini sono in parte dettati dai racconti di mia madre, Mia Mendini Morganti, e in parte sono quelli di un paio di episodi che ho vissuto personalmente da piccola.
Marieda, per me zia Mini, era la sorella della nonna Fulvia, madre di mia madre ed è morta nel 1968 quando avevo tre anni e mezzo.
I racconti che vi sto per fare ora, a distanza di 50 anni quindi, sono un’elaborazione filtrata dalla memoria di mia madre, che adesso non c’è più, e da quella mia personale di bambina. 
 
Toccare la materia

Partirei da qui, dalla foto di zia Mini con il grembiule da lavoro incorniciata da una cornice di ceramica fatta da lei, blu con i solchi delle impronte lasciate dalle sue dita, che mia mamma teneva nella sua stanza da letto e che ora conservo io, qui, nel mio studio.
Credo in parte di essere quello che sono, un’artista, anche grazie a zia Mini.
Ho un’immagine ben precisa di me da bambina, il ricordo netto di quando zia Mini in camice bianco, mi portò nel suo studio, la “scuola di ceramica di Via Giorgio Jan”, di fronte ad una gigantesca massa di argilla e togliendomi i calzetti mi aiutava a salire su questo enorme cumulo color “Melma” e mi invitava a toccare con le mani e con i piedi la materia. Mi esortava dicendo: Dai Maria! Forza! Pigia! Salta Maria!
É così che interpreto ora quel momento: un’artista spinge un’altra potenziale artista a toccare la materia e l’aiuta così a trovare sé stessa.
Il contatto con questa sostanza, la terra bagnata, malleabile, è quello che ha determinato successivamente il mio rapporto con la pittura che si potrebbe riassumere in poche parole così: percepire il colore come una materia da spalmare su di una superficie bidimensionale per lasciare una traccia della propria esistenza giorno dopo giorno su questo mondo. 


Toccare l’opera d’arte

Prima che la collezione Boschi-Di Stefano iniziata dal nonno Chichì, il mio bisnonno, e proseguita poi da zia Mini insieme al marito, diventasse una Casa-Museo del Comune di Milano, sono riuscita a frequentarla per diversi anni quando ancora era una vera e propria casa privata, abitata da persone. L’ho frequentata dal 1965, anno della mia nascita, fino al 1985 quando lasciai la casa dei miei genitori per andare a vivere da sola. Riuscivo ad entrare là dentro quando lo zio Antonio apriva la casa alle serate mondane, quando con la mamma andavamo a fargli visita e quando alcune volte mi facevo coraggio e andavo a trovarlo da sola. Avevo abbastanza soggezione di questo zio un po’ burbero e un po’ sarcastico.
Io abitavo al primo piano della casa di Via Giorgio Jan e l’appartamento pieno zeppo di opere d’arte si trovava sopra la mia testa al secondo piano. I quadri erano appesi su tre livelli. Quelli più in basso sfioravano il pavimento, si trovavano cioè esattamente alla mia stessa altezza di bambina. Di nascosto dal vecchio zio, mi ricordo infilare il dito nei buchi e nei tagli di Fontana e sfiorare la superfice di alcuni quadri materici come quelli di Afro o quelli più delicati di Morandi. Mi piaceva avere un contatto diretto con la “cosa” che non mi dava per nulla un senso di soggezione. Cominciava così per me il rapporto con le opere che consideravo una faccenda normale, per nulla distante e che vedevo non tanto come un’immagine da contemplare quanto un’idea da toccare.
Poi, mi ricordo durante le serate mondane quando la casa veniva aperta agli ospiti, giocare inserendomi tra la gente con un piccolo block-notes in mano annotando tutti i commenti che sentivo fare dalle persone su quello che vedevano e su quello che pensavano di fronte a quelle opere e mi divertivo nel registrare le cose che giudicavo così strampalate.


Plasmare la materia. Diventare un’artista.

Sul suo camice da lavoro zia Mini aveva ricamato il nome “Andrea”. Questo nome maschile era la firma con cui aveva deciso di firmare ogni sua opera. Era un omaggio al ceramista Andrea Della Robbia.
Marieda Di Stefano Boschi era un’artista e si esprimeva come poteva farlo una donna in quell’epoca storica, in questo paese e in quel preciso contesto sociale.
Aveva cominciato a guardare l’arte con il padre che la coinvolgeva nella sua passione di collezionista. Aveva proseguito poi accanto al marito che le aveva dato un ruolo fondamentale nella scelta delle opere. 
Zio Antonio ha dichiarato quando ha saputo che si sarebbe realizzato il progetto di rendere la loro casa privata un museo con tutte le loro opere aperto al pubblico: “non è un omaggio reso alla memoria della mia compagna ma corrisponde alla realtà. Opera comune nel senso totale: in quello materiale con le implicazioni di decisioni, di applicazione, di sacrifici finanziari e conseguenti rinunce in altri campi; e in quello artistico come concordanze di gusti, di indirizzi, di scelte”.
Io però mi spingerei oltre e direi che se zio Antonio ha pressoché smesso di acquisire opere nel momento in cui zia Mini è morta è anche perché era venuto a mancare lo sguardo sensibile dell’artista. 
Non so se zia Mini sia mai stata veramente consapevole di questo, non sono nemmeno sicura abbia mai usato la parola artista per definire sé stessa, ma so che ha dedicato gran parte della sua vita ad esprimere qualcosa di sé attraverso l’arte.
Zia Mini aveva regalato a sua nipote, mia madre una copia delle “Confessioni” di Sant’Agostino con un segnalibro nel punto in cui il filosofo parla del concetto di plasmare la materia: “Non sei stato tu, o Signore, che mi hai insegnato come prima di dar forma e distinzione a questa materia informe, nulla vi era, né colore, né figura, né corpo, né vita? Non l’assoluto nulla, ma un’informità senza aspetto alcuno”. Mia madre teneva questo libro da conto nel cassetto del suo comodino e ha voluto poi passare a me queste parole perché diceva che la zia le riteneva centrali nel suo ragionamento sull’arte.
Era una scultrice, usava la creta soprattutto per plasmare dei corpi, dei corpi di donne. Senza testa, né braccia, né piedi. Le gambe sì, c’erano, ma erano unite tra loro per andare a formare un unico blocco con il tronco. Questi corpi erano vuoti al loro interno, concavi, dei vasi, che potenzialmente potevano contenere al loro interno ogni cosa.


Il colore succede, non si provoca

Nella ceramica è quasi impossibile predefinire il colore. La polvere colorata che si stende bagnata sul cotto non è quello che appare dopo la cottura. Quando la materia entra nel forno per via della temperatura altissima e per via di un processo alchemico viene trasformata a tal punto da cambiarne completamente la sua colorazione.
E tu come artista sai che ciò che vedi all’inizio non è quello che sarà alla fine, il colore non lo scegli per come appare, ma per quello che immagini potrebbe diventare.
Questo è quello che si trovava davanti Marieda quando dava una patina alle sue sculture e questo è quello che io come pittrice ho portato con me dentro al mio lavoro. Il colore succede, non si determina, lo si può solamente accogliere, assecondare.


Da una donna all’altra

Vi ho già raccontato i gradi di parentela tra me e zia Mini e l’ho fatto per sottolineare quanto questa linea diretta che passa da generazione a generazione da una donna a un’altra donna possa significare molto nella storia di ognuna di noi.
 
Zia Mini era una persona con una grande carica comunicativa. Con il suo sorriso aperto e accogliente riusciva a trascinare tutti accanto a sé. Dalla fine della guerra fino al’68 ha orchestrato insieme a suo marito tantissimi ricevimenti, concerti, feste nella sua casa che era diventata un punto di riferimento per la musica e per l’arte nella Milano di quegli anni. Molti artisti frequentavano quel salotto da Sergio D’Angelo a Crippa, da Alberto Savinio a Remo Brindisi. Quando è morta, suo marito ha cercato di non interrompere quel flusso vitale e per un po’ di tempo ha proseguito in nome di Marieda ad organizzare quei ricevimenti chiedendo a mia madre di continuare a preparargli i cocktail di scampi con la maionese fatta a mano che mia mamma ed io cucinavamo nella nostra cucina per poi portarli poco prima dell’inizio della festa nell’appartamento al piano di sopra.
 
Mia madre aveva una qualità innata. Sapeva creare delle situazioni dove far sentire a proprio agio gli altri. Costruiva con continuità dei contesti dove piccoli gruppi di persone potessero stare insieme e condividere delle esperienze. In tutta la sua vita con costanza negli anni ha formato decine di piccoli gruppi di donne e di uomini, soprattutto donne, dove leggere, pensare, studiare, parlare ed ascoltarsi reciprocamente: erano le pratiche attraverso le quali ognuno, partendo da sé, contribuiva ad un ragionamento comunitario.
Mi diceva sempre: Maria, non la forma diaristica, (quella che invece perseguiva mio padre), ma la forma epistolare! È lì che si apre il pensiero. Succede proprio quando immaginiamo di parlare con qualcuno!
Recentemente ho inviato una foto di mia mamma, scattata durante una delle sue riunioni, alla sua amica Marina che mi ha risposto così: Cara Maria, grazie di questa immagine, che mi ricorda di come l'incontro che Mia sapeva creare, recasse insieme felicità e comprensione tra le persone.
 
Per dieci anni dal 2002 al 2012 ho organizzato a Venezia prima nel mio studio e poi all’interno di una Fondazione per l’arte contemporanea degli incontri solo ed esclusivamente per artisti. Un artista alla volta davanti ad un gruppo di colleghi mostrava e parlava del proprio lavoro. Tutti prima o poi sarebbero stati l’oggetto dell’ascolto e dell’osservazione e gli altri sarebbero stati ogni volta gli uditori. L’esigenza nasceva dal fatto che ognuno di noi voleva uscire dal proprio guscio perché ambiva ad essere ascoltato da orecchie attente e dal desiderio di conoscere quello che gli altri compagni producevano autonomamente nei loro studi. 
 
Nei primi anni 60 Zia Mini lasciò mia madre utilizzare lo spazio a piano terra della casa di famiglia per realizzare un suo desiderio: fondare una scuola per bambini utilizzando la musica, la letteratura, la poesia in una esperienza di gruppo per avvicinarli alle lingue. Zia Mini si nutriva sempre delle energie di mia madre così come mia madre delle energie di zia Mini. Dopo pochi anni quando nacqui io e morì la nonna Fulvia, mia madre lasciò la piccola scuola e zia Mini la prese in mano per trasformarla in uno spazio dedicato alla scultura. Portò al suo interno il suo studio e decise di aprirlo a dei momenti di condivisione con altre donne istituendo una piccola scuola di ceramica. Formò un luogo di incontro e convivialità dove cercava di trasmettere l’entusiasmo per la materia e dove cercava di aiutare ognuna a tirare fuori qualcosa da sé. L’attività di questo luogo proseguì per tanti anni anche dopo la sua morte grazie alla perseveranza della sua amica Migno che l’aveva capita, seguita e accompagnata da sempre in questa sua visione.

Mia mamma andava avanti sempre istintivamente per passione attraverso sensazioni e intuizioni. Zia Mini la seguiva allargandole e amplificandole.
Mi ricordo i racconti fantastici che faceva mia madre delle estati sull’Isola di Ponza con un gruppo di ragazzi e mi ricordo di quando mi ha raccontato che un anno sulla scia del suo entusiasmo la zia la raggiunse sull’isola e infervoratasi di quel luogo ne volle possedere un pezzettino. Si comprò una grotta, un buco che inquadrava un pezzettino di cielo.
 
Nei primi anni 90 nella mia pittura entravo sempre più a fondo all’interno di uno spazio concavo, come se stessi dipingendo il corpo dal di dentro. Per capirlo meglio cominciai a disegnare interni di cupole. Le osservavo dal punto di vista di chi ci si trova dentro. Dopo averlo vissuto per un po’ di tempo e compreso bene, questo spazio, cercai di superarlo spingendo lo sguardo oltre, al di fuori. A quel punto i disegni si concentrarono su buchi, tagli, squarci, aperture e fessure visti dal di dentro e visti dal di fuori.

(Scritto nel 2019. Modificato nel 2020)




P.S. Poche settimane dopo aver scritto il testo qui sopra ho ritrovato un opuscolo dal titolo “La casa e il museo. Aprendo una porta”. Si tratta della dispensa di un corso che la mamma aveva tenuto, insieme a Donatella Bassanesi, per l’Università delle Donne di Milano nel 2003. Lo allego qui sotto.
Le sue parole mi confermano che le piccole intuizioni che avevo avuto andavano nella stessa sua direzione. 

Dispense del corso

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Zia Mini nella sua cornice
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Ph. F. Allegretto, 2021
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Zia Mini con sua madre, Mia madre con sua mamma, Io con mia mamma
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1- Ph. 1920?, 2- Ph. P. Morganti, 1964?, 3- Ph. P. Morganti, 1991?
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Zia Mini
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Zia Mini con le sue sorelle Zia Leli e la Nonna Fulvia e la loro mamma
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Zia Mini con suo padre (il bisnonno Chichì)
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Zia Mini con sua mamma nella Casa di Via Jan, oggi "Casa Museo Boschi Di Stefano". Sullo sfondo alcuni quadri della collezione.
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Zia Mini e Zio Antonio
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Zia Mini con (da sinistra a destra) mia mamma, la cugina Rita e lo zio Sandro
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1938?
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Insegna della scuola di ceramica fatta da Marieda Di Stefano
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Copertina del Flyer della scuola di bambini di mia madre disegnata da mio zio Sandro
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Sculture di Marieda Di Stefano
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Scultura di Zia Mini
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Scultura di Marieda Di Stefano
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Scultura di Marieda Di Stefano
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Mia mamma con una scultura di zia Mini
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2010?
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Mia madre con uno dei suoi gruppi (Verona 1996?)
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Mia mamma e un gruppo di amiche in un momento conviviale durante uno dei suoi incontri (Da sinistra a destra: Marina Pietra, Mamma, Laura Boella, Shara Ponti, Marina Merlini, Laura Di Silvestro) (Verona 1996?)
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Buco della Grotta di Ponza
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Buco del "Passo del Furlo" e Buco del "Pantheon"
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Copertina della dispensa del corso della mamma per l' "Università delle donne"
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La cornice con le impronte di zia Mini insieme a un "Impastamento" con le mie impronte.
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Il mio pollice si posiziona nel solco che l'impronta di zia Mini ha fatto nella creta con il suo dito mettendomi precisamente dentro al suo gesto
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