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# 27.06

Formare l'archivio

Fondare, in prima persona l’archivio in senso stretto, anche se si sa che quello fatto in prima persona dall’artista contiene comunque delle valutazioni di tipo soggettivo.


 
 
“… Il mio desiderio è sapere cosa ho vissuto, così che io possa sapere come vivere d’ora in poi”
(Da i diari di Henry David Thoreau, 12 novembre 1837)

 
 
Che cosa succede quando è l’artista ad assumere il ruolo dell’archivista del proprio lavoro, quando cioè è lui stesso ad affrontare in prima persona l’organizzazione e l’analisi distaccata di quello che ha formato durante un pezzo della sua esistenza? Come affronta questo percorso a ritroso? Come si riattraversa, come riguarda a sé stesso e soprattutto come fa ad interpretare e dare un significato a tutto quello che ha riversato nella realtà?
E ancora... Che cosa fa se assume su di sé questa posizione in un senso creativo, ovvero se comincia a trattare questa materia nello stesso modo in cui tratta per esempio la materia pittorica? Cosa intende dire quando dice che considera l’archiviare stesso un’operazione artistica?
 
Nel momento in cui ho cominciato a costruire l’archivio di tutto il mio lavoro mi sono trovata davanti ad un caos magmatico a cui cercare di dare forma e senso. Sono partita dall’esperienza e non da una teoria preordinata. Per anni ho lavorato facendo uscire una cosa dopo l’altra, senza mai fermarmi, e soprattutto senza mai definire, intitolare ed incapsulare ogni cosa. È vero che accanto al processo pittorico scorreva sempre una forma di pensiero e di scrittura dedicata al cercare di capire cosa man mano stavo facendo, ma senza averne mai una visione di insieme. Stavo accanto ad ogni piccolo pezzetto che usciva senza avere la consapevolezza che era solamente il frammento di qualcosa di più grande.

Quando, dopo anni, ho preso in mano tutta questa massa informe è scattato il desiderio di portare dentro al mio mondo non solo questa materia così come un dato di fatto, ma anche il ragionamento che la riguardava e l’organizzazione che la metteva insieme. Ho inglobato la riflessione, la catalogazione e il mantenimento della sua storia considerando tutto questo al pari del dipingere un colore su una tela.
 
L’atto dell’archiviare mi ha permesso di identificare e sottolineare una serie di concetti che nel loro insieme definiscono, in maniera organica, accanto alle opere vere e proprie, l’immagine concreta del mio mondo.
Selezionare, decidere cosa tenere e cosa lasciare, stabilire a cosa dare importanza e cosa no, è un’impresa che non solo determina un’idea, ma anche una configurazione, una forma.
Costruire da soli il proprio algoritmo aiuta a decifrare il proprio pensiero e lo spinge verso un punto in cui siamo noi a dirigerlo e non dove vogliono farcelo andare gli altri.
Per esempio, utilizzare dei neologismi per chiamare le strutture centrali del mio sistema significa dire che è importante inventare i propri termini, che non si vuole accettare le cose così come arrivano, che si cerca di immaginare da soli il proprio glossario. Oppure, per esempio, creando un sistema di datazione che tiene conto anche delle opere che non esistono più, di quelle in progress o quelle che non sono mai esistite significa affermare che nulla viene bloccato in un’immagine definitiva, che tutto è transitorio e che alcune cose volte le cose basta solo immaginarle per farle esistere.
 
L’importante è tenere sempre aperto il sistema, mai chiuderlo in una struttura bloccata e irrigidita, ci si asserraglierebbe in una prigione. Non bisogna conformarsi mai a nulla, nemmeno a sé stessi.
Si tratta piuttosto di archiviare un processo, mantenendo sempre aperta e mai conclusa, una riflessione su ciò che si sta facendo, lasciando che ne venga fuori una forma aperta e all’inizio informe. L’archivio non può che seguire questa materia organica andandogli dietro forzandosi e piegandosi nel proprio scheletro per adattarsi al suo movimento.
 
Siccome reputo l’archivio fondamentale per dare un’inclinazione particolare a quello che faccio, a quello che penso perché è il luogo dove si producono documenti, dove si depositano materiali e dove si decidono i sistemi di catalogazione, ho deciso di prendermi la responsabilità in quanto artista di impugnarlo anche nell’auspicio di consegnarlo ad un certo punto nelle mani di qualcun altro.

La mia forma di catalogazione che diventa per forza anche una forma di interpretazione non è altro che solo la prima decodificazione, poi si spera, se ne aggiungeranno altre. Il mio desiderio è che al mio sguardo si affianchi quello di qualcun altro magari attraverso la costruzione adiacente di un “iperarchivio”, come un ipertesto che gli scorra accanto, non sostituendosi, ma aggiungendosi al mio.
Così come tutta la mia opera è il modo si trattenere il susseguirsi degli eventi attraverso la continua stratificazione di una cosa sopra un’altra cosa, così, allo stesso modo immagino il mio archivio come una sedimentazione di pensiero sopra un’altra sedimentazione di pensiero, facendo in modo che diverse prospettive coesistano senza prevaricarsi le une sulle altre.
 
L’archiviazione della mia opera è diventata come una tautologia inserita all’interno dell’archivio stesso. Se tutto il mio lavoro è fondato su un sistema di strutture che trattengono, accolgono, sostengono, conservano e organizzano il colore, l’emotività, la materia dell’esistenza, allora posso dire che questo spazio che mi sono costruita è proprio l’archivio di tutti i miei archivi. In un certo senso, in un sistema di scatole cinesi è come se l’”Archivioarchivio” fosse l’ultima grande scatola esterna, il grande contenitore che ingloba, che include tutti gli altri, permettendo che si rigeneri continuamente.
 
 
(Testo scritto nel 2022)
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Schermata dell’Archivio digitale privato